Giovanni Tonzig

Articoli e appunti

Indice

1. Fisica

  1. Marea, un problema controverso - Ovvero, come NON si spiega la marea. Un’analisi sulle spiegazioni errate che della marea vengono date perfino su importanti testi universitari.
  2. La scimmia di Carrol - Un famoso problemino relativamente al quale vengono per lo più fornite (ad esempio in rete) soluzioni completamente errate.
  3. Caduta di una ciminiera - Perché una ciminiera che cade si spezza prima di aver toccato il suolo? Una magistrale trattazione di questo non facile problema è svolta dal mio ex alunno Gabriele Varieschi, professore di fisica presso la Loyola Marymount University di Los Angeles, nel sito http://myweb.lmu.edu/gvarieschi.
  4. Effetti impossibili - Quale effetto di moto tendono a produrre, rispettivamente, una forza e una coppia di forze, quando siano applicate a un corpo rigido? Benché sia un discorso di una semplicità estrema, molti libri di testo rispon­dono alla domanda in modo sbagliato.
  5. Come accelera il centro di massa - È la più importante tra le tante proprietà del centro di massa, ma Autori di libri di testo largamente adottati non la conoscono.
  6. Quando sì e quando no - Il centro di massa è molto spesso definito, nei testi preuniversitari, come «il punto in cui possiamo immaginare di concentrare tutta la massa». In realtà, nella maggior parte dei casi immaginare questo conduce a gravi errori.
  7. La barretta senza freni - Grosso errore nella soluzione ministeriale di uno dei due problemi proposti come simulazione della prova di fisica della maturità.
  8. Che cosa significa "energia" - L’idea che l’energia possa definirsi, in fisica, come capacità di lavoro, è facilmente contestabile, ma nella maggior parte dei libri di testo viene sistematicamente riproposta.

2. Didattica

  1. Errori di Fisica a concorso - Dura critica nei riguardi di un manuale approntato dall’editoria in vista del Concorso 2013 per l’insegnamento della Fisica.
  2. Un test di ingresso - Gli impressionanti risultati di un test, effettuato prima due volte a Roma e poi a Milano, sulla preparazione in fisica degli studenti iscritti al primo anno di fisica e di ingegneria.
  3. Fisica e scuola, qualcosa non va - L’insegnamento preuniversitario della fisica non funziona. Quali i motivi?
  4. Maturità, l'esame immaginario - In un articolo del ‘93 sostenevo, paradossalmente ma non troppo, che l'esame di maturità non esiste, che è una pura finzione. Oggi invece?
  5. Quale scienza, e per chi? - L'idea, largamente  propugnata fra quanti si occupano di didattica delle scienze, che si debba portare la scienza «a tutti i cittadini, soprattutto a quelli che non diventeranno scienziati» mi sembra totalmente irrealistica. Forse la mia esperienza deve considerarsi particolarmente sfortunata?
  6. Laboratorio, l'eterna illusione - L’esperienza lo smentisce in modo clamoroso, ma si continua a proclamare che solo con un’attività di laboratorio si impara la fisica.
  7. Libri di testo, qual è il problema? - Una disamina di quello che a mio avviso è, nell’insegnamento della fisica, il problema più importante e più urgente.
  8. CPF: fine di un sogno - La bella storia del Centro Preuniversitario Ruggero Boscovich, la scuola avanzata di fisica frequentata per dieci anni da centinaia di studenti dell’area milanese.
  9. La citazione che non ti aspetti - Sul fraudolento malvezzo di continuare a intestare agli Autori originari testi un tempo di grande prestigio, in seguito completamente riscritti e ormai di modesto valore.
  10. Nuove tecnologie e apprendimento: qualcosa non torna [di Ivan Cervesato] – L’idea che l’avvento, nella didattica, delle tecnologie digitali sia destinato a determinare un miglioramento degli apprendimenti è impietosamente smentito dai fatti. Un’indagine OCSE sui test PISA mostra che è  vero il contrario: più l’insegnamento è digitalizzato, peggiori risultano gli apprendimenti.
  11. Pedagogia visionariaMentre infuria la battaglia sul progetto “La buona scuola”, vorrei fornire un esempio delle perversioni a cui possono portare le astruserie di pedagoghi che con la realtà della scuola le mani non se le sono probabilmente mai sporcate (e comunque non intendono sporcarsele). Ecco gli obiettivi didattici che, negli anni settanta, sulla rivista di un ente (l’OPPI) che si occupa di formazione dei docenti, venivano delineati per le medie inferiori (ripeto e sottolineo, medie inferiori).

1.1. Marea, un problema controverso

Ovvero, come NON si spiega la marea. Un’analisi sulle spiegazioni errate che della marea vengono date perfino su importanti testi universitari.

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1.2. La scimmia di Carrol

Un famoso problemino relativamente al quale vengono per lo più fornite (ad esempio in rete) soluzioni completamente errate.

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1.3. Caduta di una ciminiera

Perché una ciminiera che cade si spezza prima di aver toccato il suolo? Una magistrale trattazione di questo non facile problema è svolta dal mio ex alunno Gabriele Varieschi, professore di fisica presso la Loyola Marymount University di Los Angeles, nel sito http://myweb.lmu.edu/gvarieschi.

1.4. Effetti impossibili

Quale effetto di moto tendono a produrre, rispettivamente, una forza e una coppia di forze, quando siano applicate a un corpo rigido? Benché sia un discorso di una semplicità estrema, molti libri di testo rispon­dono alla domanda in modo sbagliato.

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1.5. Come accelera il centro di massa

È la più importante tra le tante proprietà del centro di massa, ma Autori di libri di testo largamente adottati non la conoscono.

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1.6. Quando sì e quando no

Il centro di massa è molto spesso definito, nei testi preuniversitari, come «il punto in cui possiamo immaginare di concentrare tutta la massa». In realtà, nella maggior parte dei casi immaginare questo conduce a gravi errori.

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1.7. La barretta senza freni

Grosso errore nella soluzione ministeriale di uno dei due problemi proposti come simulazione della prova di fisica della maturità.

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1.8. Che cosa significa "energia"

L’idea che l’energia possa definirsi, in fisica, come capacità di lavoro, è facilmente contestabile, ma nella maggior parte dei libri di testo viene sistematicamente riproposta.

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2.1. Errori di Fisica a concorso

Dura critica nei riguardi di un manuale approntato dall’editoria in vista del Concorso 2013 per l’insegnamento della Fisica.

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2.2. Un test di ingresso

Gli impressionanti risultati di un test, effettuato prima due volte a Roma e poi a Milano, sulla preparazione in fisica degli studenti iscritti al primo anno di fisica e di ingegneria.

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2.3. Fisica e scuola, qualcosa non va

L’insegnamento preuniversitario della fisica non funziona. Quali i motivi?

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2.4. Maturità, l'esame immaginario
(pubblicato su Il Giornale, 18 luglio 1993)

In un articolo del ‘93 sostenevo, paradossalmente ma non troppo, che l'esame di maturità non esiste, che è una pura finzione. Oggi invece?

Lo studente forse non è nelle condizioni migliori per rendersene conto, ma, quali che siano le apparenze, l'esame di maturità non esiste: dall'inizio alla fine, è solo una commedia, una pura finzione. Si finge prima di tutto che l'esame sia utile, indispensabile, educativo: e questa è la madre di tutte le finzioni. Si finge che il giudizio che ne esce sia credibile tant'è che se ne tiene conto ai fini dell'accesso alle facoltà universitarie come se i criteri di valutazione delle diverse commissioni d'esame non fossero, inevitabilmente, del tutto disomogenei. Si finge che il candidato presenti quattro materie per il colloquio orale*: ma è arcinoto che, nella stragrande maggioranza dei casi, il candidato di materie ne prepara solo due, facendo affidamento, oltre che sulla propria buona stella, sulla prassi ormai consolidata (e forse a questo punto, visto l'andazzo, non inopportuna) di lasciar suggerire la seconda materia del colloquio al commissario interno. Si finge che i giudizi analitici di presentazione dei candidati possano inquadrare la situazione in modo obiettivo: in realtà, non sarà, non potrà essere così: del candidato inetto, e per di più lazzarone impenitente, che in extremis, a fine maggio, si fa interrogare su una ventina di pagine nel tentativo di salvare il salvabile, e rimedia uno stentatissimo sei meno meno, si dirà nel giudizio analitico che "pur non avendo rivelato particolari attitudini, né uno specifico interesse per la materia, ha saputo nella fase conclusiva del corso determinarsi a un più incisivo impegno, raggiungendo in definitiva livelli di sostanziale sufficienza". E la commissione d'esame che può fare? Niente, deve fingere di prendere per buoni i giudizi di presentazione, e di assumerli anzi così come sono, in tutta la loro calcolata e fumosa loquacità. In realtà, non c'è quasi commissario che non senta a questo punto il bisogno impellente del buon vecchio voto: e in effetti ha subito inizio, in modo più o meno scoperto e ufficiale, perché la normativa non prevede nulla del genere, l'avventurosa traduzione dei giri di parole in numeri. Lo stesso vale, ovviamente, per le risultanze delle prove scritte e dei colloqui orali. E ben a ragione, se si considera che la valutazione finale dovrà essere espressa in sessantesimi, cioè mediante numeri: e, forse, lasciare che i numeri nascano dai numeri è ancora il modo migliore per ridurre, per quanto umanamente possibile, il margine di arbitrio e aleatorietà nel giudizio.
Tutto ciò non dovrebbe stupire, perché la finzione viene da lontano. Tutto o quasi, nella nostra scuola, è infatti finzione: e la quantità complessiva di finzione sembra anzi dover aumentare col passare del tempo, come l'entropia dell'universo. Si finge ad esempio, contro ogni logica ed ogni evidenza, che un laureato in Matematica abbia adeguate conoscenze in fatto di Fisica, e lo si spedisce ad insegnarla nei licei scientifici. Si finge che sia possibile insegnare a buon livello Storia e insieme Filosofia, o Latino e insieme Italiano, o Matematica e insieme Fisica: quando anche i sassi sanno che il docente finisce immancabilmente per concentrare attenzione, studio, passione didattica su un'unica disciplina. Si finge che l'abilitazione e il ruolo siano garanzia automatica di qualità dell'insegnamento: e su questo stenderemo un velo pietoso. Si finge demagogicamente che tutti, dalle elementari all'università, possano studiare tutto. Si finge (vedi interventi di giornalisti specializzati in una recente puntata della trasmissione televisiva di Funari) che il problema della scuola sia essenzialmente una questione di programmi da aggiornare... E a un semplice riordino dei programmi si affidano megariforme che, al di là del fiume di belle parole spese al riguardo, non faranno che rimescolare le carte, mentre continuerà ad aggravarsi il problema vero: il problema strutturale-organizzativo di una scuola ipertrofica, pachidermica, accasciata sotto il proprio stesso peso, degna figlia di uno stato che ha potuto partorire mostri come l'ultimo 740; il problema di una scuola che si può cercare di risanare solo con interventi drastici e coraggiosi, dando flessibilità, lasciando spazio a modelli alternativi, decentrando, incoraggiando le autonomie, snellendo, sveltendo, semplificando, puntando insomma in tutti i modi, anche a costo di sacrificare qualcosa, a costruire una scuola 'leggera' (come la chiamerebbe Segni**).
Ma la grande finzione arriva dappertutto, l'elenco potrebbe continuare all'infinito: programmi ministeriali che fingono che l'impossibile sia invece possibile, anzi normale (per esempio svolgere in modo serio, al ritmo di due ore alla settimana, il programma di Fisica di una terza liceo scientifico, l'intera Meccanica: esempio forse insuperato di incoscienza e irresponsabilità da parte dell'autorità scolastica); libri di testo che (soprattutto in campo scientifico) fingono di spiegare (e autori che fingono di aver capito quello che spiegano); governi che, di quando in quando, fingono di prendere sul serio il problema della scuola, e di volerlo affrontare in profondità... E come potrebbe l'esame di maturità, nella scuola delle finzioni, non essere a sua volta del tutto immaginario?
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* Chiaramente l'articolo fa riferimento al vecchio esame di maturità, in cui lo studente veniva sentito all'orale soltanto su due materie, la prima scelta dallo studente stesso, la seconda dalla commissione, in un gruppo di quattro fissate dal ministero, e rese note verso la metà aprile.
** In quegli anni Mario Segni si era fatto fautore di una serie di grandi riforme, e, con riferimento agli apparati dello Stato, caldeggiava l'idea di uno Stato 'leggero').

2.5. Quale scienza, e per chi?
(pubblicato su Il Giornale, 17 agosto 1993)

L'idea, largamente  propugnata fra quanti si occupano di didattica delle scienze, che si debba portare la scienza «a tutti i cittadini, soprattutto a quelli che non diventeranno scienziati» mi sembra totalmente irrealistica. Forse la mia esperienza deve considerarsi particolarmente sfortunata?

La notizia della recente inaugurazione del Forum permanente sulla comunicazione scientifica, presieduto dal prof. Luigi Dadda, già rettore del Politecnico di Milano, è l'occasione giusta per alcune riflessioni: tanto più che, in questo campo, il rischio dell'equivoco e della retorica mi sembra incombere in modo molto concreto, e va scongiurato in tutti i modi.
L'idea che la scienza debba, oggi, essere portata a tutti, ha molti accesi fautori: alle soglie del terzo millennio, si sostiene, il sapere scientifico ha raggiunto, con le sue infinite ricadute, una tale incidenza sulla vita di ognuno di noi da rendere ormai indispensabile una cultura scientifica di massa: di qui, in particolare, il problema della comunicazione scientifica nel suo contesto credo più pertinente e decisivo, quello della scuola. Già dieci anni fa la rivista specializzata americana Education Week, dopo aver accusato i programmi scolastici innovativi degli anni 60 (BSCS, PSSC, ecc.) di aver insegnato la scienza pura agli allievi più brillanti, affermava che "oggi l'obiettivo è come insegnare la scienza a tutti i cittadini, specialmente a quelli che non diventeranno scienziati. Detto con terminologia nostrana, oggi la scienza deve essere 'demitizzata', 'calata nel quotidiano'. E resta da dimostrare aggiunge qualcuno che la sua comprensione sia riservata a pochi eletti... 
Parole da applauso, come si vede. Ma chi è dentro la vicenda scolastica non può non restare perplesso di fronte a tanto ottimismo. Davvero la scienza può, deve essere accessibile a tutti? Penso alla mia esperienza di docente di Fisica, ai circa millecinquecento alunni fin qui avuti. Tutti hanno regolarmente superato l'esame di maturità, si capisce. Ma se dovessi valutare in modo spassionato, realistico, la loro predisposizione alla materia, penso che una ricerca statistica mi porterebbe più o meno a una conclusione di questo genere: il 20% degli alunni ha rivelato capacità buone o molto buone, il 30% capacità da appena sufficienti a discrete, il restante 50% capacità da insufficienti a praticamente nulle. Parlo di un (prestigioso) liceo scientifico... Così, devo ammettere che l'idea che si debba portare la scienza "a tutti i cittadini" non mi trascina. Forse la mia personale esperienza deve considerarsi particolarmente sfortunata? Le circostanze non aiutano a crederlo. In ogni caso, c'è ben altro. 
C'è che buona parte dei libri di testo del settore scientifico contengono e ripetono di edizione in edizione tanti e tali errori concettuali da dare clamorosa dimostrazione del fatto che, dell'argomento trattato (e parlo di questioni fondamentali), l'autore stesso non ha, in pratica, capito niente. Al riguardo, mi sembra che la documentazione offerta dal mio 100 errori di Fisica pronti per l'uso sia abbastanza impressionante: altro che gli stupidari con le bestialità degli studenti! Ma vorrei citare Pauling: "L'autore di un libro di testo non dovrebbe mettervi cose che non conosce o non capisce. Gli errori che si trovano negli odierni testi di Chimica mostrano chiaramente che i loro autori non si attengono a questa regola". Dal che si evince in primo luogo che il problema non è solo nostro (e sarà bene prenderne nota). In secondo luogo, che la comprensione della scienza pare proprio non essere una faccenda così semplice: i "pochi eletti" a cui ironicamente qualcuno si riferisce potrebbero in realtà essere ancora meno...
Ma ai fautori della scienza per tutti si potrebbero forse opporre anche considerazioni di principio. Non si vede ad esempio perché la scienza dovrebbe essere oggi imposta a tutti e invece, che so, la storia, l'arte, l'economia, le lingue, la biologia rimanere riservate a pochi. Dieci anni fa, Reagan chiese a una commissione di scienziati, presieduta da Kenneth Mortimer dell'università di Pennsylvania, di rivolgere un appello ai giovani nella prospettiva della "nuova società tecnotronica". Per chi si aspettava un grande inno al sapere scientifico, la risposta di quegli uomini di scienza fu una vera delusione. Ne riporto alcune righe. 

"Quando è nata Silicon Valley, non esistevano gli specialisti della Silicon Valley. Gli inventori più audaci di nuovi sistemi, nuove macchine, nuovi giochi, nuovi programmi, furono matematici e filosofi, qualche volta laureati in storia, qualche volta in materie classiche. Intelligenza e fantasia si sono rapidamente adattate ai requisiti tecnici di quel lavoro. Il contrario è quasi impossibile... Cosa dobbiamo dunque dire ai giovani? Dobbiamo dire che si deve studiare la storia, sotto pena di non capire il presente e di essere ciechi al futuro. Dobbiamo dire di studiare lingua e letteratura... perché è sempre più importante comunicare in modo accurato, capire se stessi e farsi capire dagli altri. Dobbiamo raccomandare di studiare filosofia... perché senza la capacità di analisi e di sintesi non si può dirigere e non si può eseguire bene alcun lavoro. Dobbiamo raccomandare di avvicinare i giovani alla scienza con spirito umanistico, in modo che le visioni di insieme, i modelli di civiltà precedano i campi specifici, e che il giovane, come un viaggiatore in un percorso difficile, non perda mai il riferimento del posto in cui si trova e del punto verso il quale sta andando".

Nota: questo documento non ha avuto in Italia la minima diffusione. All'ultimo congresso dell'Associazione per l'insegnamento della Fisica (Udine, ottobre '92) non uno dei presenti in sala ne aveva sentito parlare.

2.6. Laboratorio, l'eterna illusione
(pubblicato su Il Giornale, 12.10.1993)

L’esperienza lo smentisce in modo clamoroso, ma si continua a proclamare che solo con un’attività di laboratorio si impara la fisica.

L'elogio dell'attività pratica nella didattica delle discipline scientifiche rappresenta, come suol dirsi, un classico. Intendiamoci: che sul mondo della didattica gravi una spessa coltre di pregiudizi e luoghi comuni di ogni genere, è un fatto assodato (basti pensare al variopinto scatolone vuoto dell'interdisciplinarità). Ma qui ci troviamo di fronte a qualcosa di veramente speciale, a un esempio forse non superabile di come un idea, in sé più che legittima, possa venire fraintesa e distorta, e al tempo stesso assurgere a mito. Sugli effetti decisivi dell'attività di laboratorio nella didattica delle scienze, la letteratura è sterminata: appelli, raccomandazioni, richiami, proclami si sono susseguiti e si susseguono in ogni angolo del globo, a livelli anche autorevoli. Sembra tuttavia di poter cogliere una linea di tendenza: la fede nel laboratorio appare oggi particolarmente intransigente e sfegatata là dove più deboli sono le competenze scientifiche (penso a certi libri di testo), o più scarse le esperienze didattiche dirette.
Il concetto si può esprimere in modi anche alati, ma la nuda sostanza è questa: finché si fa lezione in aula, si fa una didattica astratta, che vorrebbe dire inutile; se invece si portano le classi in laboratorio, si fa per ciò stesso una didattica pratica, concreta, cosicché tutto, nel bene, diventa di colpo possibile. Paradossalmente, questa fortunata scuola di pensiero non si appoggia come ci si aspetterebbe su dati sperimentali, ma sulla pura immaginazione: non su quanto nella scuola è di fatto accaduto o accade, ma su quanto piace pensare che debba accadere. Il ragionamento è molto semplice: la scienza è sperimentale, perciò "o si insegna in modo sperimentale, o non si insegna". 
Qualcuno, non a torto, potrebbe protestare, dire che, giocando in tal modo sulle parole, si fa la caricatura della scienza. La quale è sperimentale, non c'è dubbio: ma, vivaddio, in che senso? Non certo nel senso banale che il mestiere dello scienziato consista nel manovrare apparecchiature e nel fare misure, grafici e tabelle... Questo è un fraintendimento completo, una imperdonabile sciocchezza: se fosse così, molti dei maggiori fisici, Newton ed Einstein non esclusi, andrebbero depennati dalla storia della scienza! Invece, la scienza è sperimentale nel senso che le idee della scienza nascono dai fatti, vanno confrontate con i fatti, sono giudicate dai fatti: cosicché si fa scienza quando il dato sperimentale è una ragione più forte della ragione, quando il "così dovrebbe essere" è soppiantato dal "così è". 
Mi chiedo come la prenderebbe chi è persuaso che "fare scienza" e "fare esperimenti" siano in pratica la stessa cosa se gli capitasse di leggere quanto, su Physics Today del novembre '89, ha scritto il fisico cecoslovacco M. Machacek: "La teoria degli epicicli di Tolomeo era in grado [...] di riprodurre e prevedere correttamente i risultati delle osservazioni [...]. Da un punto di vista positivista fu un vero successo. Eppure era fondamentalmente errata [...] perché non poteva servire come primo anello della catena che condusse alle leggi di Newton. La teoria di Copernico, viceversa, lo poté. Senza la rappresentazione del mondo di Copernico, Keplero non avrebbe potuto [...] formulare le sue leggi, anche se avesse utilizzato i dati sperimentali di oggi anziché quelli di Brahe. Che le nuove teorie fondamentali provengano da un pensare non convenzionale piuttosto che dall'abbondanza e precisione di risultati sperimentali può essere illustrato da almeno un altro esempio. Einstein non propose la sua teoria della relatività [...] in base alla constatazione sperimentale di deviazioni dalle leggi di Newton [...]. Il punto che vorrei mettere in evidenza è che ulteriori esperimenti con abbondanza di dati accurati non significano necessariamente un progresso della fisica. Potrebbero invece perpetuare vecchie teorie [...]. Il pericolo è ancora più grande oggi che i dati sono selezionati da computer, che cercano ciò che noi vogliamo trovare e nascondono il resto."
Ma torniamo alla scuola. In un articolo apparso su School Science Review, e riportato su La Fisica nella Scuola (n.3 dello scorso anno), il prof. D. Hodson, dell'università di Auckland (Nuova Zelanda), ha raccolto i risultati di una serie di ricerche sugli effetti dell'attività pratica nell'insegnamento delle scienze. Dire che il bilancio è modesto è dire niente: più che una doccia fredda, per chi ha scommesso tutto sul laboratorio è, oggettivamente, una mazzata. 
A questo punto, mi sembra impossibile non porsi in modo fortemente critico di fronte al progetto di riforma Brocca-Mezzapesa, da tempo incombente sulla secondaria superiore. Di tutti i possibili metodi di insegnamento delle discipline scientifiche, l'unico per il quale è disponibile un'estesa, circostanziata, documentata analisi dei risultati didattici è il metodo incentrato sull'attività pratica: e non c'è dubbio che i risultati appaiano, nell'insieme, negativi. Ciò stabilito, che il progetto Brocca-Mezzapesa si radichi, per la parte scientifica, precisamente su tale metodo, spiega bene l'entusiasmo dei fornitori di apparecchiature, ma francamente non pare altrimenti difendibile. 
Devo però precisare meglio il mio punto di vista. È documentato che, con l'attività pratica, alcuni insegnanti sono capaci di raggiungere alcuni dei loro obiettivi con alcuni ragazzi. Ciò a me sembra straordinariamente importante e istruttivo: se nella stragrande maggioranza dei casi l'attività pratica ha fallito, non significa che l'idea dell'attività pratica debba essere condannata come inefficace in sé: significa invece, più semplicemente, che il metodo dell'attività pratica è stato seguito da insegnanti che avrebbero dovuto lavorare in altro modo. L'errore del progetto Brocca-Mezzapesa non sta tanto nel fatto di aver scelto, tra i diversi modelli didattici, l'unico per il quale un esito negativo sembra poter essere previsto con certezza, quanto piuttosto nel fatto stesso di aver scelto un modello: nel fatto cioè di aver fissato rigidamente un unico modo di lavorare per tutti gli insegnanti. Al di là di ogni considerazione sul dubbio valore didattico del modello, ciò appare straordinariamente imprudente e irrealistico. Quali che siano gli stereotipi da manuale, nella scienza non esiste un unico modo di lavorare, ma tanti modi diversi quanti sono gli scienziati: guai se così non fosse! 
Lo stesso vale per l'insegnamento, e dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti. Conosco colleghi che letteralmente non possono far lezione se non hanno sottomano un pendolo, una molla, un diapason, un oscilloscopio, un qualsivoglia aggeggio di laboratorio. Ammiro la sicurezza con cui si muovono tra le apparecchiature, approvo il loro modo di fare scuola: al tempo stesso, mi guardo bene dal cercare di scimmiottarne i comportamenti, so che il mio approccio deve essere diverso. Se è vero che, nella scuola, la funzione formativa è infinitamente più importante di quella informativa (e non credo sia possibile dubitarne), allora dovrebbe essere chiaro che ci possono essere molti modi diversi di insegnare bene le scienze e tutto il resto: non è affatto importante che il taglio sia sperimentale piuttosto che concettuale, storico piuttosto che matematico, informatico piuttosto che filosofico... L'importante è che l'insegnante appassionato e capace (ce ne sono tanti!) non sia ingabbiato dentro modi e modelli precostituiti e a lui non congeniali, ma che possa lavorare col massimo di convinzione e di entusiasmo, sfruttando al meglio le proprie specifiche capacità. Costringere tutti dentro una stessa gabbia didattica è il peggiore degli errori: non solo offende la dignità dell'insegnante, ma rappresenta di fatto un imperdonabile spreco di risorse. Ogni insegnante ha da dare un suo personale contributo, diverso da quello di tutti gli altri, e deve poterlo dare. C'è spazio per tutti, c'è bisogno di tutti.

2.7. Libri di testo, qual è il problema?
(pubblicato su La Fisica nella Scuola, Supplemento al n.2 del 2003)

Una disamina di quello che a mio avviso è, nell’insegnamento della fisica, il problema più importante e più urgente.

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2.8. CPF: fine di un sogno
(pubblicato su La Fisica nella Scuola, n.4, ottobre-dicembre 2005)

La bella storia del Centro Preuniversitario Ruggero Boscovich, la scuola avanzata di fisica frequentata per dieci anni da centinaia di studenti dell’area milanese.

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2.9. La citazione che non ti aspetti

Sul fraudolento malvezzo di continuare a intestare agli Autori originari testi un tempo di grande prestigio, in seguito completamente riscritti e ormai di modesto valore.

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2.10. Nuove tecnologie e apprendimento: qualcosa non torna

di Ivan Cervesato
L’idea che l’avvento, nella didattica, delle tecnologie digitali sia destinato a determinare un miglioramento degli apprendimenti è impietosamente smentito dai fatti. Un’indagine OCSE sui test PISA mostra che è  vero il contrario: più l’insegnamento è digitalizzato, peggiori risultano gli apprendimenti.

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2.11. Pedagogia visionaria

Mentre infuria la battaglia sul progetto “La buona scuola”, vorrei fornire un esempio delle perversioni a cui possono portare le astruserie di pedagoghi che con la realtà della scuola le mani non se le sono probabilmente mai sporcate (e comunque non intendono sporcarsele). Ecco gli obiettivi didattici che, negli anni settanta, sulla rivista di un ente (l’OPPI) che si occupa di formazione dei docenti, venivano delineati per le medie inferiori (ripeto e sottolineo, medie inferiori).

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