Articoli e appuntiIndice1. Fisica
2. Didattica
1.1. Marea, un problema controversoOvvero, come NON si spiega la marea. Un’analisi sulle spiegazioni errate che della marea vengono date perfino su importanti testi universitari.
1.2. La scimmia di CarrolUn famoso problemino relativamente al quale vengono per lo più fornite (ad esempio in rete) soluzioni completamente errate.
1.3. Caduta di una ciminieraPerché una ciminiera che cade si spezza prima di aver toccato il suolo? Una magistrale trattazione di questo non facile problema è svolta dal mio ex alunno Gabriele Varieschi, professore di fisica presso la Loyola Marymount University di Los Angeles, nel sito http://myweb.lmu.edu/gvarieschi. 1.4. Effetti impossibiliQuale effetto di moto tendono a produrre, rispettivamente, una forza e una coppia di forze, quando siano applicate a un corpo rigido? Benché sia un discorso di una semplicità estrema, molti libri di testo rispondono alla domanda in modo sbagliato.
1.5. Come accelera il centro di massaÈ la più importante tra le tante proprietà del centro di massa, ma Autori di libri di testo largamente adottati non la conoscono.
1.6. Quando sì e quando noIl centro di massa è molto spesso definito, nei testi preuniversitari, come «il punto in cui possiamo immaginare di concentrare tutta la massa». In realtà, nella maggior parte dei casi immaginare questo conduce a gravi errori.
1.7. La barretta senza freniGrosso errore nella soluzione ministeriale di uno dei due problemi proposti come simulazione della prova di fisica della maturità.
1.8. Che cosa significa "energia"L’idea che l’energia possa definirsi, in fisica, come capacità di lavoro, è facilmente contestabile, ma nella maggior parte dei libri di testo viene sistematicamente riproposta.
2.1. Errori di Fisica a concorsoDura critica nei riguardi di un manuale approntato dall’editoria in vista del Concorso 2013 per l’insegnamento della Fisica.
2.2. Un test di ingressoGli impressionanti risultati di un test, effettuato prima due volte a Roma e poi a Milano, sulla preparazione in fisica degli studenti iscritti al primo anno di fisica e di ingegneria.
2.3. Fisica e scuola, qualcosa non vaL’insegnamento preuniversitario della fisica non funziona. Quali i motivi?
2.4. Maturità, l'esame immaginario
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* | Chiaramente l'articolo fa riferimento al vecchio esame di maturità, in cui lo studente veniva sentito all'orale soltanto su due materie, la prima scelta dallo studente stesso, la seconda dalla commissione, in un gruppo di quattro fissate dal ministero, e rese note verso la metà aprile. |
** | In quegli anni Mario Segni si era fatto fautore di una serie di grandi riforme, e, con riferimento agli apparati dello Stato, caldeggiava l'idea di uno Stato 'leggero'). |
L'idea, largamente propugnata fra quanti si occupano di didattica delle scienze, che si debba portare la scienza «a tutti i cittadini, soprattutto a quelli che non diventeranno scienziati» mi sembra totalmente irrealistica. Forse la mia esperienza deve considerarsi particolarmente sfortunata?
La notizia della recente inaugurazione del Forum permanente sulla comunicazione
scientifica, presieduto dal prof. Luigi Dadda, già rettore del Politecnico
di Milano, è l'occasione giusta per alcune riflessioni: tanto più che, in
questo campo, il rischio dell'equivoco e della retorica mi sembra incombere in modo
molto concreto, e va scongiurato in tutti i modi.
L'idea che la scienza debba, oggi, essere portata a tutti, ha molti accesi fautori:
alle soglie del terzo millennio, si sostiene, il sapere scientifico ha raggiunto,
con le sue infinite ricadute, una tale incidenza sulla vita di ognuno di noi da
rendere ormai indispensabile una cultura scientifica di massa: di qui, in particolare,
il problema della comunicazione scientifica nel suo contesto credo più pertinente
e decisivo, quello della scuola. Già dieci anni fa la rivista specializzata
americana Education Week, dopo aver accusato i programmi scolastici innovativi
degli anni 60 (BSCS, PSSC, ecc.) di aver insegnato la scienza pura agli allievi
più brillanti, affermava che "oggi l'obiettivo è come insegnare la scienza
a tutti i cittadini, specialmente a quelli che non diventeranno scienziati. Detto
con terminologia nostrana, oggi la scienza deve essere 'demitizzata', 'calata nel
quotidiano'. E resta da dimostrare aggiunge qualcuno che la sua comprensione sia
riservata a pochi eletti...
Parole da applauso, come si vede. Ma chi è dentro la vicenda scolastica non
può non restare perplesso di fronte a tanto ottimismo. Davvero la scienza può, deve
essere accessibile a tutti? Penso alla mia esperienza di docente di Fisica, ai circa
millecinquecento alunni fin qui avuti. Tutti hanno regolarmente superato l'esame
di maturità, si capisce. Ma se dovessi valutare in modo spassionato, realistico,
la loro predisposizione alla materia, penso che una ricerca statistica mi porterebbe
più o meno a una conclusione di questo genere: il 20% degli alunni ha rivelato capacità
buone o molto buone, il 30% capacità da appena sufficienti a discrete, il
restante 50% capacità da insufficienti a praticamente nulle. Parlo di un
(prestigioso) liceo scientifico... Così, devo ammettere che l'idea che si
debba portare la scienza "a tutti i cittadini" non mi trascina. Forse
la mia personale esperienza deve considerarsi particolarmente sfortunata? Le circostanze
non aiutano a crederlo. In ogni caso, c'è ben altro.
C'è che buona parte dei libri di testo del settore scientifico contengono
e ripetono di edizione in edizione tanti e tali errori concettuali da dare clamorosa
dimostrazione del fatto che, dell'argomento trattato (e parlo di questioni fondamentali),
l'autore stesso non ha, in pratica, capito niente. Al riguardo, mi sembra che la
documentazione offerta dal mio 100 errori di Fisica pronti per l'uso sia
abbastanza impressionante: altro che gli stupidari con le bestialità degli
studenti! Ma vorrei citare Pauling: "L'autore di un libro di testo non dovrebbe
mettervi cose che non conosce o non capisce. Gli errori che si trovano negli odierni
testi di Chimica mostrano chiaramente che i loro autori non si attengono a questa
regola". Dal che si evince in primo luogo che il problema non è
solo nostro (e sarà bene prenderne nota). In secondo luogo, che la comprensione
della scienza pare proprio non essere una faccenda così semplice: i "pochi
eletti" a cui ironicamente qualcuno si riferisce potrebbero in realtà
essere ancora meno...
Ma ai fautori della scienza per tutti si potrebbero forse opporre anche
considerazioni di principio. Non si vede ad esempio perché la scienza
dovrebbe essere oggi imposta a tutti e invece, che so, la storia, l'arte,
l'economia, le lingue, la biologia rimanere riservate a pochi. Dieci anni
fa, Reagan chiese a una commissione di scienziati, presieduta da Kenneth
Mortimer dell'università di Pennsylvania, di rivolgere un appello
ai giovani nella prospettiva della "nuova società tecnotronica".
Per chi si aspettava un grande inno al sapere scientifico, la risposta
di quegli uomini di scienza fu una vera delusione. Ne riporto alcune righe.
"Quando è nata Silicon Valley, non esistevano gli specialisti della Silicon Valley. Gli inventori più audaci di nuovi sistemi, nuove macchine, nuovi giochi, nuovi programmi, furono matematici e filosofi, qualche volta laureati in storia, qualche volta in materie classiche. Intelligenza e fantasia si sono rapidamente adattate ai requisiti tecnici di quel lavoro. Il contrario è quasi impossibile... Cosa dobbiamo dunque dire ai giovani? Dobbiamo dire che si deve studiare la storia, sotto pena di non capire il presente e di essere ciechi al futuro. Dobbiamo dire di studiare lingua e letteratura... perché è sempre più importante comunicare in modo accurato, capire se stessi e farsi capire dagli altri. Dobbiamo raccomandare di studiare filosofia... perché senza la capacità di analisi e di sintesi non si può dirigere e non si può eseguire bene alcun lavoro. Dobbiamo raccomandare di avvicinare i giovani alla scienza con spirito umanistico, in modo che le visioni di insieme, i modelli di civiltà precedano i campi specifici, e che il giovane, come un viaggiatore in un percorso difficile, non perda mai il riferimento del posto in cui si trova e del punto verso il quale sta andando".
Nota: questo documento non ha avuto in Italia la minima diffusione. All'ultimo congresso dell'Associazione per l'insegnamento della Fisica (Udine, ottobre '92) non uno dei presenti in sala ne aveva sentito parlare.
L’esperienza lo smentisce in modo clamoroso, ma si continua a proclamare che solo con un’attività di laboratorio si impara la fisica.
L'elogio dell'attività pratica nella didattica delle discipline scientifiche
rappresenta, come suol dirsi, un classico. Intendiamoci: che sul mondo della didattica
gravi una spessa coltre di pregiudizi e luoghi comuni di ogni genere, è un
fatto assodato (basti pensare al variopinto scatolone vuoto dell'interdisciplinarità).
Ma qui ci troviamo di fronte a qualcosa di veramente speciale, a un esempio forse
non superabile di come un idea, in sé più che legittima, possa venire fraintesa
e distorta, e al tempo stesso assurgere a mito. Sugli effetti decisivi dell'attività
di laboratorio nella didattica delle scienze, la letteratura è sterminata:
appelli, raccomandazioni, richiami, proclami si sono susseguiti e si susseguono
in ogni angolo del globo, a livelli anche autorevoli. Sembra tuttavia di poter cogliere
una linea di tendenza: la fede nel laboratorio appare oggi particolarmente intransigente
e sfegatata là dove più deboli sono le competenze scientifiche (penso a certi
libri di testo), o più scarse le esperienze didattiche dirette.
Il concetto si può esprimere in modi anche alati, ma la nuda sostanza è questa:
finché si fa lezione in aula, si fa una didattica astratta, che vorrebbe dire inutile;
se invece si portano le classi in laboratorio, si fa per ciò stesso una didattica
pratica, concreta, cosicché tutto, nel bene, diventa di colpo possibile. Paradossalmente,
questa fortunata scuola di pensiero non si appoggia come ci si aspetterebbe su dati
sperimentali, ma sulla pura immaginazione: non su quanto nella scuola è di
fatto accaduto o accade, ma su quanto piace pensare che debba accadere. Il ragionamento
è molto semplice: la scienza è sperimentale, perciò "o si insegna
in modo sperimentale, o non si insegna".
Qualcuno, non a torto, potrebbe protestare, dire che, giocando in tal modo sulle
parole, si fa la caricatura della scienza. La quale è sperimentale, non c'è
dubbio: ma, vivaddio, in che senso? Non certo nel senso banale che il mestiere dello
scienziato consista nel manovrare apparecchiature e nel fare misure, grafici e tabelle...
Questo è un fraintendimento completo, una imperdonabile sciocchezza: se fosse
così, molti dei maggiori fisici, Newton ed Einstein non esclusi, andrebbero
depennati dalla storia della scienza! Invece, la scienza è sperimentale nel
senso che le idee della scienza nascono dai fatti, vanno confrontate con i fatti,
sono giudicate dai fatti: cosicché si fa scienza quando il dato sperimentale è
una ragione più forte della ragione, quando il "così dovrebbe essere"
è soppiantato dal "così è".
Mi chiedo come la prenderebbe chi è persuaso che "fare scienza"
e "fare esperimenti" siano in pratica la stessa cosa se gli capitasse
di leggere quanto, su Physics Today del novembre '89, ha scritto il fisico
cecoslovacco M. Machacek: "La teoria degli epicicli di Tolomeo era in grado
[...] di riprodurre e prevedere correttamente i risultati delle osservazioni [...].
Da un punto di vista positivista fu un vero successo. Eppure era fondamentalmente
errata [...] perché non poteva servire come primo anello della catena che
condusse alle leggi di Newton. La teoria di Copernico, viceversa, lo poté.
Senza la rappresentazione del mondo di Copernico, Keplero non avrebbe potuto [...]
formulare le sue leggi, anche se avesse utilizzato i dati sperimentali di oggi anziché
quelli di Brahe. Che le nuove teorie fondamentali provengano da un pensare non convenzionale
piuttosto che dall'abbondanza e precisione di risultati sperimentali può
essere illustrato da almeno un altro esempio. Einstein non propose la sua teoria
della relatività [...] in base alla constatazione sperimentale di deviazioni
dalle leggi di Newton [...]. Il punto che vorrei mettere in evidenza è che
ulteriori esperimenti con abbondanza di dati accurati non significano necessariamente
un progresso della fisica. Potrebbero invece perpetuare vecchie teorie [...]. Il
pericolo è ancora più grande oggi che i dati sono selezionati da computer,
che cercano ciò che noi vogliamo trovare e nascondono il resto."
Ma torniamo alla scuola. In un articolo apparso su School Science Review,
e riportato su La Fisica nella Scuola (n.3 dello scorso anno), il prof. D.
Hodson, dell'università di Auckland (Nuova Zelanda), ha raccolto i risultati
di una serie di ricerche sugli effetti dell'attività pratica nell'insegnamento
delle scienze. Dire che il bilancio è modesto è dire niente: più che
una doccia fredda, per chi ha scommesso tutto sul laboratorio è, oggettivamente,
una mazzata.
A questo punto, mi sembra impossibile non porsi in modo fortemente critico di fronte
al progetto di riforma Brocca-Mezzapesa, da tempo incombente sulla secondaria superiore.
Di tutti i possibili metodi di insegnamento delle discipline scientifiche, l'unico
per il quale è disponibile un'estesa, circostanziata, documentata analisi
dei risultati didattici è il metodo incentrato sull'attività pratica:
e non c'è dubbio che i risultati appaiano, nell'insieme, negativi. Ciò stabilito,
che il progetto Brocca-Mezzapesa si radichi, per la parte scientifica, precisamente
su tale metodo, spiega bene l'entusiasmo dei fornitori di apparecchiature, ma francamente
non pare altrimenti difendibile.
Devo però precisare meglio il mio punto di vista. È documentato che,
con l'attività pratica, alcuni insegnanti sono capaci di raggiungere alcuni
dei loro obiettivi con alcuni ragazzi. Ciò a me sembra straordinariamente
importante e istruttivo: se nella stragrande maggioranza dei casi l'attività
pratica ha fallito, non significa che l'idea dell'attività pratica debba
essere condannata come inefficace in sé: significa invece, più semplicemente,
che il metodo dell'attività pratica è stato seguito da insegnanti
che avrebbero dovuto lavorare in altro modo. L'errore del progetto Brocca-Mezzapesa
non sta tanto nel fatto di aver scelto, tra i diversi modelli didattici, l'unico
per il quale un esito negativo sembra poter essere previsto con certezza, quanto
piuttosto nel fatto stesso di aver scelto un modello: nel fatto cioè di aver
fissato rigidamente un unico modo di lavorare per tutti gli insegnanti. Al di là
di ogni considerazione sul dubbio valore didattico del modello, ciò appare
straordinariamente imprudente e irrealistico. Quali che siano gli stereotipi da
manuale, nella scienza non esiste un unico modo di lavorare, ma tanti modi diversi
quanti sono gli scienziati: guai se così non fosse!
Lo stesso vale per l'insegnamento, e dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti. Conosco
colleghi che letteralmente non possono far lezione se non hanno sottomano un pendolo,
una molla, un diapason, un oscilloscopio, un qualsivoglia aggeggio di laboratorio.
Ammiro la sicurezza con cui si muovono tra le apparecchiature, approvo il loro modo
di fare scuola: al tempo stesso, mi guardo bene dal cercare di scimmiottarne i comportamenti,
so che il mio approccio deve essere diverso. Se è vero che, nella scuola,
la funzione formativa è infinitamente più importante di quella informativa
(e non credo sia possibile dubitarne), allora dovrebbe essere chiaro che ci possono
essere molti modi diversi di insegnare bene le scienze e tutto il resto: non è
affatto importante che il taglio sia sperimentale piuttosto che concettuale, storico
piuttosto che matematico, informatico piuttosto che filosofico... L'importante è
che l'insegnante appassionato e capace (ce ne sono tanti!) non sia ingabbiato dentro
modi e modelli precostituiti e a lui non congeniali, ma che possa lavorare col massimo
di convinzione e di entusiasmo, sfruttando al meglio le proprie specifiche capacità.
Costringere tutti dentro una stessa gabbia didattica è il peggiore degli
errori: non solo offende la dignità dell'insegnante, ma rappresenta di fatto
un imperdonabile spreco di risorse. Ogni insegnante ha da dare un suo personale
contributo, diverso da quello di tutti gli altri, e deve poterlo dare. C'è
spazio per tutti, c'è bisogno di tutti.
Una disamina di quello che a mio avviso è, nell’insegnamento della fisica, il problema più importante e più urgente.
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La bella storia del Centro Preuniversitario Ruggero Boscovich, la scuola avanzata di fisica frequentata per dieci anni da centinaia di studenti dell’area milanese.
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Sul fraudolento malvezzo di continuare a intestare agli Autori originari testi un tempo di grande prestigio, in seguito completamente riscritti e ormai di modesto valore.
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di Ivan Cervesato
L’idea che l’avvento, nella didattica, delle tecnologie digitali sia destinato a determinare un miglioramento degli apprendimenti è impietosamente smentito dai fatti. Un’indagine OCSE sui test PISA mostra che è vero il contrario: più l’insegnamento è digitalizzato, peggiori risultano gli apprendimenti.
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Mentre infuria la battaglia sul progetto “La buona scuola”, vorrei fornire un esempio delle perversioni a cui possono portare le astruserie di pedagoghi che con la realtà della scuola le mani non se le sono probabilmente mai sporcate (e comunque non intendono sporcarsele). Ecco gli obiettivi didattici che, negli anni settanta, sulla rivista di un ente (l’OPPI) che si occupa di formazione dei docenti, venivano delineati per le medie inferiori (ripeto e sottolineo, medie inferiori).
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